1. ROCCABIANCA UN PAESE DA LEGGERE IN DIALETTO
  2. LE SETTE NOTE DEL PARLAR DI ROCCABIANCA (Alcune avvertenze e considerazioni sul dialetto scritto)
  3. SETTE STORIELLE CHE SANNO DI DIALETTO
    1. LA LESIÓŊ DAL RASTÉL (La lezione del rastrello)
    2. UOMINI E TOPI
    3. GHESTOPO!
    4. E BARTÀCA!…
    5. GRAN CAMPIONI DEL DIR SOTTILE
    6. MILIU E LO STRANO RIFLESSO BUONO DI ROCCABIANCA
    7. QUANDO IL BUON NATALE, TE LO DAVA PIPÓŊ

ROCCABIANCA UN PAESE DA LEGGERE IN DIALETTO

di Angelo GIL Balocchi

La “fisionomia esistenziale” di un certo luogo è determinata in misura decisiva anche e soprattutto dal suo dialetto, non meno di quanto essa possa scaturire dalle caratteristiche geografiche, urbanistiche, storiche e ambientali in genere. Anzi, il dialetto non è soltanto l’indubbio testimone del formarsi storico di una comunità, ma ne è a suo modo uno dei “motori costruttivi”. In questo senso, anche per il piccolo abitato di Roccabianca, le parole del dialetto da sempre qui parlato sono meritevoli di attenzione al pari di ciascun mattone della rocca, di ogni arcata dei portici di piazza Minozzi, di tutte le relazioni umane intercorse nel tempo in paese, di qualsiasi solco arato nei secoli sul terreno dai contadini del posto. Parlare e vivere si confondono in una amalgama indifferenziata che nel suo insieme ha come esito la costruzione di un senso della collettività condiviso. Per questo, anche il dialetto di Roccabianca è una chiave intima di lettura della vita di questo minimale luogo del mondo, testimone anch’esso di come parlare e vivere non siano nient’altro che le due facce in perenne dialogo di una stessa medaglia, nel rinnovamento continuo fra una “testa e una croce” che si scambiano un quotidiano e vicendevole fior di conio, sempre arricchito dal riflettersi di una parte (il dialetto) sull’altra (la vita). E viceversa. Se gli umani amano così tanto le parole, non è solo perché nel linguaggio possono trovare l’immediatezza di un codice utile allo scambio comunicativo. Ovviamente anche questo aspetto ha la sua rilevanza fondamentale. Ma se gli umani si sentono spesso una cosa sola con le parole, è soprattutto perché queste regalano il più intenso mezzo per trasportare al di fuori dell’animo tutto ciò che parrebbe insopportabile lasciare sacrificato a un tale isolamento. L’atto del parlare non sa dire dunque soltanto “pane al pane e vino al vino”. Può arrivare a dire anche, ad esempio, “cuore al pane e vino al mondo”. Questo accade nei dialoghi, nei pensieri e nelle scritture più straordinarie, quando le parole calano le loro reti in acque di maggiore profondità, al di sotto del pelo di superficie su cui galleggiano i significati diretti e comuni dei vocaboli, andando a pescare laggiù, vastità di senso inusitate. Detto in altro modo: la parola sa essere non solo contenitore di informazioni, ma fortunatamente sa espandersi verso una duttilità poetica e una versatilità fantasiosa, che non possono trovarsi in nessun altro luogo se non nella dimensione della assoluta libertà creativa del pensiero. Con le parole facciamo affiorare le più intime componenti di noi stessi, quelle preziosità del sentire degne di andarsi a fondere con contributi simili, provenienti dalla sensibilità altrui. La parola è il contratto di solidarietà più intenso che due o più persone possano stipulare fra loro: in questa prospettiva la parola è il veicolo comunitario per eccellenza. Cosa fanno, non a caso, due innamorati, quando sentono il linguaggio ordinario non più sufficiente a rendere conto dello straripare dei propri sentimenti? Si inventano parole nuove, quelle adatte a tanta urgenza di raccontare, in modo che il senso di unione e di fusione reciproca venga reso vicendevolmente riconoscibile con un proprio gergo privato, espressioni “cifrate” che fissino nell’unicità del dire, quasi un escludersi dal resto del mondo, per rifondare il mondo nuovo e circoscritto della passione condivisa. Qualcosa di simile accade anche in una piccola compagnia di amici, o in una famiglia, oppure in ogni altra forma di gruppo sociale più o meno numeroso: l’invenzione della parola, come potente strumento di affermazione della parte di mondo e di esistenza che si è orgogliosi di stare creando insieme. Ed è questo in fondo lo stesso “meccanismo” alla base in particolare della formazione dei dialetti. Parlare, ascoltare e intendersi in dialetto significa affermare: “…Io riconosco voi, certo, ma allo stesso tempo sento il modo in cui voi davvero mi capite…”. Parlare un dialetto vuol dire scambiarsi fondamentali porzioni d’esperienze di mondo, che ciascun parlante sente quasi come avesse contribuito a rendere vere, battezzandole insieme alla comunità più o meno estesa di cui fa parte. Tutte queste considerazioni si fanno interessanti e particolari, se tarate sul punto di vista, seppur minimale, di una realtà linguistica come quella del dialetto di Roccabianca, nel suo genere una sorta di unicum nell’ambito del panorama delle parlate locali parmensi. Il dialetto di Roccabianca è unico per tre motivi principali: è espressione singolare di una specie di “enclave” linguistica dalle sfumature lombarde, in territorio emiliano; è conosciuto ormai da sole poche centinaia di parlanti; e infine, ma non ultima motivazione per importanza, nel suo storico semi-isolamento dettato dalle fattezze geografiche del luogo, Roccabianca è stata nel tempo fucina di originalità del parlare e di una vivacità semantica che val la pena di essere raccontata. Se questi tratti peculiari sono stati purtroppo anche penalizzanti in ordine a mancate occasioni di sviluppo economico e territoriale, per altro verso hanno dato adito all’auto-generazione di una sorta di laboratorio linguistico di paese, nel quale la fantasia dell’isolamento dal mondo ha saputo spesso sfociare in una vera e propria originalità inimitabile delle caratteristiche espressive locali. La particolarità nell’uso di certi suoni “rari”; l’insistere sulla conformazione di parole dalla pronuncia piuttosto ardua, ma a suo modo ricercata e dotata di una ritmicità di valore; la varietà espressiva ricca di coloriture e intensità, non di rado portatrici di guizzi di notevole originalità inventiva…sono questi gli ingredienti minuti che fanno del dialetto Roccabianchino un caso linguistico interessante da indagare. Non è un caso se a Roccabianca, il linguaggio si sia amalgamato spesso alle vicende della quotidianità di paese, anche attraverso le figure di pittoreschi personaggi che nel motto di spirito, nell’arguzia del gioco di parole o persino nella brillantezza involontaria della creatività naif scaturita dallo strafalcione, hanno dato vita lungo la storia di questo piccolo posto, a un vero e proprio “habitat linguistico” dalla vivacità del tutto singolare. Per tutte queste ragioni, siamo convinti che un “excursus narrativo” dedicato alla pur umile vicenda linguistica di Roccabianca (anche se per forza di cose ovviamente frammentario e ricostruito lungo la rievocazione di piccoli lampi estemporanei della memoria) possa risultare interessante non solo per chi ha già qualche familiarità con la realtà del piccolo paese della Bassa, ma anche per ogni appassionato della magia delle parole, della forza del linguaggio, della fascinazione della lettura.

LE SETTE NOTE DEL PARLAR DI ROCCABIANCA (Alcune avvertenze e considerazioni sul dialetto scritto)

di Angelo GIL Balocchi

Scrivere il dialetto non è un’impresa da poco.

Trattandosi di una lingua tramandata solamente a voce da una generazione all’altra, “in teoria” non esistono vere e proprie regole codificate, ufficiali, per trasportare le sue parole, nero su bianco, sopra la pagina di un libro. Questo è tanto più vero, nel caso di un dialetto come quello di Roccabianca, che potremmo definire “minore”, non certo perché manchi di “nobiltà linguistica” e di pregio culturale, (ingredienti innegabilmente custoditi anche in un idioma così umile come quello Roccabianchino), ma solo per il fatto di essere stato parlato nel tempo, e di esserlo tuttora, da una ristretta cerchia di persone. Il dialetto di Roccabianca ha una sua musicalità curiosa, allegra, a tratti densa di gioviale rozzezza, e può sfiorare persino luminose vette di poetica grossolanità, ma cercare di catturarne i suoni per poterli far posare sopra un foglio di carta, può a volte comportare le stesse difficoltà di afferrare con la mano una manciata di nebbia, lungo il Po, in una lattiginosa mattinata di novembre. Per fortuna, un aiuto fondamentale ci viene da dove meno ce lo aspetteremmo, ossia dalla fonetica ufficiale. Gli studiosi di faccende linguistiche hanno previsto e messo a punto dei “segni scritti” praticamente per ogni suono che siamo in grado di produrre con lingua, gola, palato, corde vocali, labbra, denti, fiato, messi debitamente insieme. Si tratta a volte di “segni speciali”, di lettere accentate o corredate di altre piccole diavolerie grafiche, con cui abbiamo poca familiarità. Ma ogni suono ha il suo segno scritto corrispondente, che ci guida a riconoscerlo e ci conduce verso la corretta pronuncia. Per scrivere (e poi naturalmente leggere) in modo abbastanza preciso il dialetto di Roccabianca, serve conoscere fondamentalmente sette suoni particolari, coi relativi modi di riportarli sulla pagina. In realtà sarebbero qualcuno in più di sette, ma questi sono i più frequenti, e poi sembrava bello condensarli in un numero così simbolico, come fossero le sette note di una musica popolare. Vediamo quali sono queste “sette note” del dialetto di Roccabianca.

1) La più singolare, è anche quella che mette in maggiore difficoltà chi non abbia assorbito fin da piccolo, insieme al latte materno, gli strani suoni del nostro dialetto. Si tratta di una “enne” del tutto speciale. Gli esperti la definiscono tecnicamente “enne nasale velare” (per il modo in cui impostiamo lingua, palato e tutto “l’ambaradàn” della bocca, mentre la pronunciamo), ma noi per fare prima la chiameremo “enne ad galéŋa”, ossia “enne di gallina”. È infatti il tipo di “enne” presente nella parola “galéŋa” (gallina) e il suo segno grafico corrispondente è una “enne” quasi uguale a quella normale, con l’aggiunta di una gentile piccola “coda” sulla seconda “gambetta”, quasi come un minuscolo inchino fatto dalla lettera stessa nella bocca di chi la pronuncia. Questo modo di pronunciare la “enne” è in realtà presente anche nella lingua italiana, ma molto più nascosto. In italiano, compare infatti solo seguito da consonante, come nelle parole “aŋcóra” o “aŋgolo”, oppure “aŋguilla”. Solo nel nostro dialetto, e in pochi altri dei paesi a noi vicini (soprattutto Zibello), questa “enne” speciale può comparire con una vocale attaccata alla “coda”, come appunto in “galéŋa” (gallina), o in “bréŋa” (brina), o in “faréŋa” (farina); oppure la troviamo libera in fondo alla parola, come in “garśóŋ” (ragazzo), “balóŋ” (pallone). Insomma, signore e signori, ecco a voi, come si scrive, in tutta la sua acrobatica magnificenza sonora, la “enne ad galéŋa”:

ŋ

2) La seconda, importantissima, “nota notevole” nello spartito del dialetto di Roccabianca, è la “u” più chiusa che si possa immaginare. Per scriverla, serve metterle in testa quella buffa specie di “due puntini coricati”, chiamati “dieresi”, così: “ü”. Questo tipo di “u” è quasi un marchio di fabbrica della nostra parlata, tanto da essere presente nella più famosa e utilizzata fra la “interiezioni” nostrane, un modo di richiamare l’attenzione altrui, inconfondibile da quanto suona ruspante e genuino. Mettiamo l’esempio di un tale che ritorni a Roccabianca dopo aver abitato lontano per qualche tempo: decide di fare un giretto per la piazza in bici, e all’improvviso, alle spalle, si sente urlare dietro: “Ahü!!!”. Il minimo che gli verrebbe da pensare è: “Sé, adèsa sé ch’à sóŋ propria rivà a cà!” (Sì, adesso sì sono proprio arrivato a casa). Se uno poi non sapesse nulla del dialetto, per dargli un’idea del suono della “ü” di “ahü”, non potremmo riferirci all’italiano, perché lì quel suono non è presente. L’unica parola che mi viene in mente è il cognome di un pittore tedesco del Cinquecento: Albrecht Dürer. La “ü” di “Dürer” e di “ahü”, la troviamo invece in dialetto in parole tipo “mür” (muro), “dür” (duro), “madür” (maturo), “stürà” (sturare: verbo fondamentale nella Bassa). Ecco dunque, la “ü” di “ahü”, la scriveremo così:

ü

3) La terza lettera speciale da conoscere nel nostro dialetto, è una “o” altrettanto “cavernosa”. Anche questa si scrive con i puntini coricati (“dieresi”) messi sopra, in questo modo: “ö”. E anche questa sarebbe inutile ricercarla nella lingua italiana, perché lì non esiste. Si tratta di un suono probabilmente ereditato dai secoli di conquiste longobarde, lombarde e francesi, che il feudo di Roccabianca dovette subire. Per capirci sul tipo di suono di cui stiamo parlando, possiamo far riferimento al nome di un tipico piatto della cucina tradizionale milanese, la cosiddetta “casöla”. In dialetto Roccabianchino è invece presente ad esempio nelle parole “manśöl” (vitello), o “fiöl” (figlio), oppure “öv” (uovo). Il suono della “ö” è molto simile a quello indicato a volte con il segno grafico “œ”, una specie di “o” ed “e” fuse insieme. Nel presente libro, viene utilizzata perlopiù la forma “ö”, e solo in qualche occasione anche la “œ” (le sfumature fra i due casi sono davvero minime). In sostanza, così si scrive la tipica “o” chiusa “a doppia mandata” del dialetto di Roccabianca:

ö

4) Un altro caratteristico suono della nostra parlata deriva da uno strano modo di ammorbidire la “zeta”, quasi come quando si mette “in màca” (a mollo) un salume, prima di affettarlo. A differenza dei precedenti, questo è un suono molto presente anche in italiano, sebbene si noti poco, in quanto ben “mimetizzato”. Un tipico esempio è contenuto nella parola “rosa”: se la pronunciate con attenzione, notate che la “esse” di “rosa” è una specie di “zeta” ingentilita, meno dura. Gli studiosi assegnano a questa “esse” il nome di “sibilante sonora” (differente dalla “sibilante sorda”, presente ad esempio nella parola “suono”). Il segno grafico su cui ci si è messi d’accordo per scrivere questo misto di “esse” e “zeta”, è una “esse” con in cima un ciuffetto (accento) girato verso destra, così: “ś”. Allora, quando vogliamo scrivere la “esse” di “śìa” (zia), “biśióŋ” (ape), “tuśà” (tosare), “garśóŋ” (ragazzo), dobbiamo usare questo segno:

ś

5) C’è poi una quinta importante lettera da segnalare, apparentemente poco significativa, ma in realtà abbastanza importante, perché si rischia di darla per scontata, essendo frequentissima anche in italiano. Eppure nel nostro dialetto, questo dettaglio fa spesso la differenza, all’interno di una parola. La potremmo definire come una “o” semichiusa, ed è per capirci quella contenuta (per ben due volte) nella parola italiana “solo”. In italiano, questa “o” non viene mai accentata, perché risulterebbe superfluo. In dialetto invece è importante farlo, perché aiuta a distinguere in modo univoco una certa corretta pronuncia rispetto a una errata. L’accento corretto per la “o” di “solo” ha il ciuffetto verso destra, così: “ó” (completamente diversa dalla “ò” apertissima di “però”, questa con il ciuffetto verso sinistra). Questa “ó” semichiusa compare in dialetto ad esempio nella parola “bśónt” (unto), “fónś” (fungo), “garatóŋ” (zolla di terra), “bóŋ” (buono). Importante segnalare anche che, dal punto di vista del suono, questa “ó” è vicinissima parente della “ŏ” resa graficamente con una piccola mezzaluna appoggiata sopra: “ŏ”. Per non complicare troppo le cose, in questo libro, usiamo in ogni caso necessario la “ó” con il ciuffetto verso destra, “e bóŋanòt sartùr” (e buonanotte al sarto!). Così troverete scritta allora la “ó semichiusa” del dialetto di Roccabianca:

ó

6) Anche la sesta “nota” del nostro dialetto è piuttosto sfuggente e invisibile, perché, come nel caso precedente, si trova spesso in italiano, ma non viene quasi mai evidenziata. Si tratta di una “e” gentile, presente ad esempio nella parola italiana “freno”, o in quella dialettale “pügnatéŋ” (pentolino): come modo di scriverla, bisogna metterci sopra il ciuffetto (accento) verso destra. Sembra un dettaglio da niente, e invece nel dialetto ha la sua importanza. In generale, il ciuffetto (accento) verso destra tende a “chiudere” il suono, come nel caso di cui stiamo parlando: per fare un altro esempio, nella parola “gnéśa” (piagnucolosa, noiosa). Mentre il ciuffetto verso sinistra, tende ad “aprire” il suono, come nella parola “bèch” (becco). Se vi fidate dunque, nel nostro dialetto è importante saper leggere la differenza fra la “é” di “freno”, o di “guśéŋ” (maiale), così:

é

e invece la “è” di “ferro”, o di “stabièra” (porcilaia), così:

è

7) Ultimo di numero, ma anche per importanza, perché si tratta proprio di un dettaglio minimo, (“Last but also least”, àl dirés n’inglés con pùch vanardé a cà), va ricordato un certo modo di distinguere la lettera “a”, quando si vuole indicare un prolungamento del suono. Si usa allora scriverla con una lineetta messa sopra, per far capire appunto come sia necessario esitare quel mezzo secondo in più per emettere il suono. Così: “ā”. Come detto, è veramente un’inezia, ma ogni tanto comparirà, in alcune parole specifiche come “fāt” (fatto), oppure “cuānd” (quando). Non si tratta insomma di una questione straordinaria, stavolta, ma avrà il suo perché, anche ogni volta che troverete scritta nel testo questo tipo di “a” un po’ strascicata, così:

ā

Riassumendo:

ŋ = “enne” di galéŋa (gallina)

ü = “u” di “Ahü!” (ehi tu!)

ö/œ = “o” di fiöl (figlio) e di fœss (fosse)

ś = “esse” di biśióŋ (ape)

ó/ò = “o” di “bóŋa” – “nòt” (buona – notte)

é/è = “e” di pügnatéŋ ad fèr (pentolino di ferro)

ā = “a” di fāt (fatto)

Sono questi i segni indispensabili per riportare sulla pagina inchiostrata il dialetto di Roccabianca con una grafia sufficientemente comprensibile. Le sfumature e le finezze di cui tenere conto sarebbero in teoria molte altre, ma dato che non siamo qui per fare dell’accademia linguistica, “e invéci nüàtar a sióm gént clà pàrla cmé la màngia”, possiamo dichiarare chiuso qui questo mini-saggio un po’ rustico, su questioni di accenti e ciuffi di lettera, e procedere senz’altro indugio alla lettura delle pirotecniche pagine di Enzo Gotelli.

SETTE STORIELLE CHE SANNO DI DIALETTO

di Angelo GIL Balocchi

Vogliate qui gradire sette storielle confezionate da Angelo Balocchi, a mo’ di dolcetto vernacolare, leggibili anche come caffè e ammazzacaffè dal sapor dialettale! Revisionando per l’occasione questa serie di brevi racconti, è venuta a galla (un po’ come accade per le “epifanie ponghésche”, in alcune delle storie che leggerete) una controprova di certe caratteristiche del tutto specifiche del dialetto.          I racconti in origine erano nati in italiano, e così erano stati scritti. Si è deciso però, quasi in via sperimentale, di tentare una traduzione dialettale almeno per una parte di essi, sul totale dei sette. L’esperimento è riuscito abbastanza bene, e infatti i primi tre (intitolati rispettivamente: 1 “La lesióŋ dal rastél” – 2 “Uomini e topi” – 3 “Ghestopo!”), li potrete leggere in dialetto, con intervallate, di tanto in tanto e messe fra parentesi quadra, le traduzioni in italiano. Quello che questa piccola operazione ha evidenziato, è che per scegliere di parlare in dialetto o in italiano, bisogna prendere a monte una decisione ancor più nascosta nel profondo del nostro modo di far girare le rotelle della sensibilità linguistica. A seconda della lingua che s’intende utilizzare, infatti, è necessario pensare “in italiano” per parlare italiano, oppure pensare “in dialetto” per parlare in dialetto. Si tratta di un fenomeno ben familiare a chi conosce le lingue straniere, e sa perfettamente che ogni tipo di linguaggio diverso è sostenuto da una struttura di pensiero del tutto propria. Ma vederlo succedere con tanta evidenza anche con il nostro dialetto, è fonte di un piccolo moto di stupore e, perché no, anche di una lieve punta d’orgoglio (“sénsa mai smingàs che pàr nüàtar l’é sémpar ammèi na pónta ad furmài”: senza mai dimenticare che per noi è meglio una punta dio formaggio). Tutto ciò, lo si evince dal confronto immediato fra i passi dei racconti che leggerete in dialetto, e i rispettivi “blocchetti” di traduzione, riportati di man in mano subito a seguire. Come si vedrà, passare “alla lettera” dall’italiano al dialetto, e viceversa, è quasi impossibile. Ma il motivo è ancor più sorprendente: ossia, perché il dialetto (solo per certi versi, e limitatamente ad aspetti molto legati alla vita pratica e concreta), risulta di gran lunga più efficace, colorato e ricco di sfumature di senso, rispetto all’italiano. Il dialetto è più vivace, più sanguigno, ciarliero, a tratti caustico, irriverente, coglie nel pieno del suo “scorrere presente”, il pulsare dell’esistenza negli attimi stessi del suo farsi. Per questo, se noterete delle lievi differenze fra testo in dialetto e traduzione italiana, mi raccomando di non prendervela con la presunta imperizia dello scrivente Angelo Balocchi. Ma anzi, ricordatevi che si tratta di un pregio in grado di mettere in risalto ancor più la bellezza multiforme del nostro dialetto, e non di un malinteso difetto.

LA LESIÓŊ DAL RASTÉL (La lezione del rastrello)

di Angelo GIL Balocchi

A’ gh’éra ‘na famìlia ad paisàŋ: marì, muiér e ‘n fiöl. Par la màma e pr’àl papà, cùl garśóŋ lé l’éra töta la sù véta: da matéŋ a sera ‘i sa spacàvaŋ la schéna in méśa ai camp pàr catà sö un quài liréŋ da fàl stüdià. [C’era una famiglia di contadini: marito, moglie e un figlio. Per la mamma e per il papà, quel ragazzo era tutta la loro vita: da mattina a sera si spaccavano la schiena in mezzo ai campi, per raccogliere qualche soldino e farlo studiare]. A’la féŋ, a fòrsa ad sacrifési, i’gh l’àvan cavàda da mandàl a scöla in cità. I’ gh’àvan catà ànca un pòst da dòrmar dai prét, in culéc. [Alla fine, a forza di sacrifici, erano riusciti a mandarlo a scuola in città. Gli avevano anche trovato un posto per dormire dai preti, in collegio]. A pàsa un pèr d’ān e ‘l garśóŋ al stüdia cl’é ‘n piaśér, l’é propria brāv, ‘nà pagèla töta piéna ad növ e‘d déś. [Passano un paio d’anni e il ragazzo studia che è un piacere, è proprio bravo, una pagella piena di nove e di dieci]. Un bèl dé, sóta Pasqua, al garśóŋ al végn a cà da là cità par fà un quài dé ad vacànsa. Màma e papà i rèstaŋ a bóca vèrta: che bèl giùnuòt cal s’éra fāt. Che bèli manéri! E pù ‘cli bèli ragióŋ c’al sàva di’, di gran discùrs töt cumplicà, töt in “italiano”. [Un bel giorno, sotto Pasqua, il ragazzo viene a casa per fare qualche giorno di vacanza. Mamma e papà rimangono a bocca aperta: che bel giovanotto che si era fatto. Che belle maniere! E poi, che belle parole che sapeva dire, dei gran discorsi tutti complicati, tutti in “italiano”]. Però an’ fà mìa témp a pasà trì quart d’ùra, che ‘l garśóŋ al cuméncia bèle a ‘ndà sö pàr na braga. Al pàr gnànca pö lö, al fà ‘l dificìl, al dà ‘d nàs a töt: cara ‘l mé Signùr cmé l’é dvintà mòrbii! [Però, non fanno in tempo a passare tre quarti d’ora, che il ragazzo comincia già ad andare su per una braga (= “dare fastidio” – ndt). Non sembra neanche più lui, fa il difficile, storce il naso su tutto: caro il mio Signore, com’è diventato snob!]. Al s’é smingà inféŋ al dialàt. T’agh pö mia dmandà ‘na roba che lö al càsca dal pér, gnànca at gh’avés parlà in cinés. [Si è scordato persino il dialetto. Non gli puoi domandare una cosa che casca dal pero, neanche gli avessi parlato in cinese]. 

“Vèh, garśóŋ, pàsam al sdèl!”, l’agh fà sù pà.

“…Non vi capisco padre, spiegatevi meglio…”, àl dìś lö.

La màma la d’manda: “…Al mé pütél…andrésat in dal pulèr a tö’m un quài öv?…”.

“…Madre?…prego?…cosa sarebbe questo…come lo avete chiamato…pulèr…?”.

[“Veh, ragazzo, passami il secchio!”, gli fa suo papà. “…Non vi capisco padre, spiegatevi meglio…”, dice lui. La mamma domanda: “…Il mio bambino…andresti nel pollaio a prendermi qualche uovo?…” “…Madre?…prego?…cosa sarebbe questo…come lo avete chiamato…pulèr…?”]. Niént! A‘n sèrt mumént la màma e ‘l papà i’gh rinüncian: a pàra da dì lì ròbi a un mür, e sùra’l cönt an mür siòc cmé nà tàca. I’l làsan par sù cönt e ì siguétaŋ còi sù mastér. [Niente! Ad un certo momento la mamma e il papà rinunciano: sembra di dire le cose ad un muro, e per di più ad un muro sciocco come una “tacchia” (=scaglietta di legno). Lo lasciano per suo conto e continuano coi loro mestieri]. Dòpa an pèr d’ùri, la màma e ‘l papà i’éŋ lé in’d l’éra chi fàŋ dì lauràt. Al fiöl ‘al giròtla lé d’inturàŋ, a’svéŋ al prà, e intànt ‘al léśà un lébàr, gnànca al fés un gràn prufesùr c’al pöl mìa tirà föra ‘l nàś un minüt da li pàgini. [Dopo un paio d’ore, la mamma e il papà sono lì nell’aia che fanno dei lavoretti. Il figlio gironzola lì intorno, vicino al prato, e intanto legge un libro, neanche fosse un gran professore che non può alzare il naso un minuto dalle pagine]. Propria a’la féŋ dal prà, a gh’é un rastél pàr téra coi dént girà a préria, méś lugà da l’èrba. Al fiöl al caméŋa. Al caméŋa e ‘l léśa. Al léśa e ‘l caméŋa. E vàda lé che an bèl mumént: “Sböööm!!!…”, a’gh rìva na strénga dréta dréta in d’al müś. [Proprio alla fine del prato, c’è un rastrello per terra coi denti girati in alto, mezzo nascosto dall’erba. Il figlio cammina. Cammina e legge. Legge e cammina. E guarda lì che un bel momento: “Sböööm!!!…”, gli arriva una botta dritta dritta nel muso]. “…Dìu c’àgh végna n’càncar al rastél…a lö e a chi’l l’à invintà!!!…”, àl smadóna al fiöl in méśa a l’èra. Tra al léśar e l’èrba, a l’n’àva mìa vést al rastél. Al gh’à pistà i dént e ‘l mànach l’é sbalsà sö cmé ‘na móia, drét insöma ai sù, di dènt. Su pà, a vadàr töt la séna e a séntàr smadunà acsè nustràn, al sàlta sö e’l fà:

“Càra ‘al mé garśóŋ: a vàdat alùra che lì lignàdi at’ià capés anca’mò?…”. [“…Dio che gli venga un accidente al rastrello…a lui e a chi lo ha inventato!!!…”, smadonna il figlio in mezzo all’aia. Tra il leggere e l’erba, non aveva visto il rastrello. Gli ha pestato i denti e il manico è balzato su come una molla, dritto nei suoi, di denti. Suo papà, a veder tutta la scena e a sentire smadonnare così nostrano, salta su e fa: “Caro il mio ragazzo: allora lo vedi che le legnate le capisci ancora?…”].

UOMINI E TOPI

di Angelo GIL Balocchi

Sul fondamentale dizionarietto di lessico dialettale zibellino, “A có bulsóŋ” (Comune e Scuola Media di Zibello – a cura di Carlo Soliani e Gianandrea Allegri – 2004), leggo questa strepitosa definizione: magàŋ = grossa imbarcazione che riesce a trasportare fino a 300 quintali.

A gh’é dli paròli in dialàt, ch’im fàŋ végnar in mént di arcórd ca sàva gnaŋ d’avìgh. [Ci sono certe parole in dialetto, in grado da sole di evocarmi ricordi che nemmeno io sapevo più di avere]. La paròla “magàŋ” la fà pensà sübét a Ciśóŋ, al barcaröl ad Stàgn püsè famùs ad töt, che pàr di’ān l’à viaśà insöma i’àcui dal Pù, tànt cmé si fésaŋ i’òndi ad l’Oceano Pacìfich. [La parola “magàŋ”, la associo a Cisóŋ, mitico barcaiolo di Stagno, che per anni ha cavalcato le onde del Grande Fiume come fossero i flutti del Pacifico]. Ind’la mé fantaśìa da pùvar “aŋvùd a dré rìva”, al mónd dal magàŋ am l’imàgini cmé nà macedonia ad gént, in dù capitàva di gràn fāt curiùś, sémpar a metà vìa fra la fadìga ad scampà, e un pù d’alegrìa stagiunāda, pàr tirà inànś. [Il mondo del “magăŋ”, nella mia rielaborata fantasia di povero postero di terra ferma, me lo immagino come un microcosmo umano, costellato di tanti episodi curiosi, sempre a cavallo fra la fatica del vivere e l’ironia necessaria per sopravvivere]. Insöma al magàŋ, l’equipàgg al pasāva an möc ad dė dré fìla sénsa turnà a cà, pàr purtà sö e śò, lóngh al Pù, sgiàvra, tèra, e töt chi matériài lé. [Sul “magàŋ”, l’equipaggio trascorreva tanti giorni filati senza fare rientro a casa, per trasportare ghiaia, terra, e altri materiali lungo il corso fluviale]. A gh’éra alùra da tös adré töt cól ch’àgh vréva, pàr pudì pasà tanti giurnàdi luntàŋ da cà, col mangià el bévar, e cumpanìa bèla. [Era dunque indispensabile dotarsi di tutto il necessario, per poter trascorrere il lungo periodo in trasferta, muniti dei beni di necessità e di primo conforto]. Ins’àŋ magàŋ dégn ad rispét, pr’esémpi, an pudéva mìa mancà nà bóta ad véŋ, e i la sarnévan a secónda di dé ca gh’éra da stà in vióŋ. [A bordo di un “magăŋ” che si rispettasse, non poteva ad esempio mai mancare una botticella di vino, commisurata ai giorni da trascorrere lungo la corrente]. Clà ‘ulta famùśa, i’éraŋ stà in gìr pàr dli s’màŋi, e csé la bóta i l’àvan töta sö bèla grósa. Da cól chi dìśan, an s’è mai savì bén sa gh’éra ànca Ciśóŋ. [Quella volta, era stata questione di settimane, e la botte di conseguenza, l’avevano procurata bella grossa. La leggenda non ha mai chiarito bene se anche Ciśóŋ fosse della compagnia.] Cmé saràla, cmé saràla mìa, fāt a stà che ins’àl magàŋ, töt i n’àvan bivì da göst, ad véŋ, a la féŋ adli lónghi giurnàdi ad laurà. Inféŋ a cuānd, nà béla (o bröta) séra, con la bóta quasi fnìda, in dal scarügà in fónd cmàl màscul pàr lémpar li scüdéli ad véŋ, a végn a gàla na bèla pónga, un bèl surgàss gràs téc! [Fatto sta che ognuno, a bordo, ne aveva bevuto il giusto, di vino, alla fine di ciascuna dura giornata lavorativa. Fino a quando, una bella (o brutta) sera, a botte quasi esaurita, scandagliando sul fondo col mestolo per riempire i boccali, venne a galla una bella “pónga” (pantegana) pasciuta]. A vàdar cùl spetàcul, a töt agh végn un gràn schifo e n’imbàstigh mìa da rédar, ànca s’iéran dla gènt viàda con róbi ad töt i culùr. [Al primo impatto, il senso di raccapriccio e di ribrezzo fu abbastanza profondo, anche in quegli uomini così avvezzi alle durezze del vivere]. A pensà ch’iàvan ciürlà pàr di dé, na sprėmüda d’üa curéta con un galegiànt dal génar, an gh’éra mìa asè da stà alégar. [Pensare di aver trincato per giorni un nettare d’uva nobilitato da una simile correzione, non era cosa da mandare giù con leggerezza]. Ma dòpa i pröm mumént ad scunfòrt, töt al cióp ad i’amìgh i s’àrcordan ch’iéŋ di barcaröi con la pél düra cmé’l curàm, e…fùrsi àv cönti nà bàla, ma secónd mé, l’é stà propria Ciśóŋ cl’é saltà sö pàr pröm e l’à dét: “…Garśóŋ, a l’hóm biví feŋ a incö…al bütaróm mia via propria adésa, ah?…” [Ma dopo i primi attimi di smarrimento, l’antica saggezza barcaiola si fece largo fra gli smarriti compagni d’avventura, e mi piace pensare che fosse proprio Cisóŋ in persona a rompere gli indugi, proclamando: “…Ragazzi, lo abbiamo bevuto fino a oggi…non lo butteremo via proprio adesso, eh?…”]. E dòp’avì dāt nà bèla sburfàda, par parà via i péi ad la pùvra bistiuléŋa ch’i galegiàvaŋ ammó ins’la s’ciöma dal véŋ (e lì, ad sicür, l’éra aŋgàda in un bàgn ad cuntintàsa), scadavóŋ al s’é parsuàś ca sarés stà propria un gràŋ pcà, bütà vìa cól ca rastàva ad töta cla gràsia ad Dìu. [E dopo aver dato una bella soffiata per scansare i peli ancora affioranti in superficie, della naufraga bestiola (di certo annegata in un bagno di liquida felicità), ciascuno si convinse in cuor suo che sarebbe stato un peccato sprecare la rimanenza di tanto ben di Dio]. E i sà sbagliàvaŋ mìa tànt, parché a fórsa ad bévar dal véŋ slungà con dlà pónga, i s’éraŋ vacinà in abundànsa, lónga töt cùl gràn viàś ins’àl Pù da cüntà a i’ànvud, insöma a cùl magàŋ cal paréva gnì föra da na fòla. [Tanto più che gli anticorpi anti-ponga, ognuno se li era già procurati in abbondanza, lungo tutta quella memorabile escursione sul fiume, a bordo di quel fantasmagorico “magàŋ”].

GHESTOPO!

di Angelo GIL Balocchi

Sémpar pàr vìa ad véŋ, sóragh e gràmi situasióŋ: nüàtar in dlà Bàsa, i’óm fāt la guèra mìa péna cmàl s’ciòpp e la riultéla, ma ànca con lì batüdi e li bèfi.  [Ancora a proposito di vino, topi e buon viso a cattiva sorte: l’opposizione alla prepotente invadenza straniera, nella Bassa, si praticò con tutti i mezzi, compresa l’affilatissima lama dell’ironia più beffarda.] I’àŋ sémpar cuntà che in témp ad guèra, in nà famìlia mìa tànt ad siùr, éra capità nà bèla ucaśióŋ ad vèrar nà bóta ad véŋ. [Narra sempre la leggenda che, durante la seconda guerra mondiale, in una modesta famiglia, si presentasse l’occasione di inaugurare una buona botticella di vino]. L’éra mìa nà ròba da töt i dé, in chi temp grām là, e scadavóŋ in cà al sguluśiàva béle da séntas “fà céra a la gùla”, da clà bèla àcua culuràda ad róss. [Non era cosa da tutti in giorni, di quei tempi bui, e ognuno di casa, in cuor suo, pregustava già un po’ di conforto liquido e purpureo giù per la gola]. Cuānda rìva l’ùra da vérar clà présiùśa vàsca da véŋ, i’éŋ töt cuānt lé d’in túraŋ, pàr pèrdar gnàŋ un minüt ad cùl gràŋ fāt. Ma péna i tìraŋ vìa al tàp pàr cavà śò al véŋ…öh, òrca ad nà galéŋa sòpa!!! Tànt cmé cla ‘ulta ins’àl magàŋ in méśa a Pú, sàlta föra nà gràn bèla pónga, gràsa cmé un Frà, cl’àva pasà l’invèran in màca in clà láŋca d’àlcol. [Al momento di aprire il prezioso contenitore, si erano tutti riuniti per non perdere nemmeno un secondo dell’avvenimento. Ma quando venne levato il tappo per spillare, oh…somma delusione! Un po’ come quella volta sul “magàŋ” in mezzo a Po, si scoprì un gran bel topone pasciuto che aveva svernato a mollo in quella piscina alcolica.

E śò dli biastömi, alùra, tànt cmé cuānda timpèsta in dàl lüvióŋ! [Giù bestemmie, allora, come se non ci fosse un domani!] Però, dòpa i pröm mumént ch’iéraŋ töt incasà cmé i dràghi, la ràbia la dvénta malésia, da sfugà cóntra cùl graŋ guśéŋ dal distéŋ. [Dopo i primi attimi di furiosa delusione però, la rabbia si mutò in lampo di genio, da sfogare contro quel gran porco del destino]. “…A sív cù fóm?…” al dìś al papà al sù scunsulà esèrcit ad familia “…al dóm da bèvar ai Tudàsch! Acsé i rómpan mia li scàtli e nüatar a stóm an pú chièt…” [“Sapete cosa facciamo?” dice il papà al suo sconsolato esercito familiare, “lo diamo da bere ai tedeschi, così non rompono le scatole e noi stiamo un po’ meno in ansia”]. E i fàŋ pröma a fāl, che a dìl! Nà bèla cumbrìcola àdla famìlia, l’às töś sö e la và in nà cà lé śvéŋ, in dù a gh’éra töt i capurióŋ di Tudàsch. [Architettare il piano e metterlo in pratica, fu un tutt’uno. La lieta delegazione familiare si recò in una vicina abitazione, dove il tremendo esercito occupante aveva stabilito il quartier generale]. A vàdar cl’ufèrta acsé generùśa, chi gràŋ crœk ad suldà, is fàŋ mìa pregà un minüt, e is màtaŋ a dāgh déntar a fórsa ad brindéŋ avanti e indré. [Al vedere l’oggetto dell’offerta, i severi militi teutoni non si fecero pregare un attimo, mettendosi a darci dentro con brindisi su brindisi]. Dòpa ch’iàŋ tràt śò àn bèl pù ad bicér ad cùl bóŋ brudéŋ bén savrì ad surgàss, vóŋ ad chi tudàsch, fùrsi un quài “capitani” ad cói catìv, àdla Gestapo, che in dal fratémp al s’éra an pù indulsì cmàl véŋ, al saltà sö el dìś: “Che vino essere qvesto?”. [Dopo aver buttato giù vari bicchieri del delicato nettare “toposo”, qualcuno di loro, forse un severo ufficiale della Gestapo momentaneamente rabbonito dalle blandizie di Bacco, si premurò di informarsi: “…Che vino essere qvesto?…”].  Cùl bóŋ papà ad familia, ciapà an pù ala spruvésta, al tintógna sö la pröma ragióŋ ch’àgh sàlta in dlà mént, e l’agh rispónda: “Questo essere vino póngato, siùr capitàni!”. [Il buon padre di famiglia, preso un po’ di sorpresa, improvvisò la più balorda delle classificazione enologiche che gli balzasse in mente: “…Questo essere…vino póngato!…” (da “pónga”, pantegana, in dialetto)]. Al gran uficiàl Tudàsch, a séntar cùl nóm acsé eśòtich, al fà un surìś cal pàr la Gioconda, al pudéva mìa ésar püsè cuntént; l’agh dà nà pàca ins’li spàli e’l vùśa töt alégar: “…Oh, ja!!! Gut, vino póngato…gut! Molto buono!…”. [L’austero ufficiale, al sentire il fascino di quel nome così esotico, spalancando un gran sorriso e dando una pacca sulle spalle all’uomo, non poté che reagire nel più radioso dei modi: “…Oh, ja!!! Gut, vino pongato…gut! Molto buono!…”.] L’é stàda acsé alùra che da lì nòstri pàrt, magari la guèra l’óm mìa vinsìda, mo ad sicür a i’óm ciàpa un pù pr’àl cül, chi Tudàsch da féra lé! [E fu così che dalle nostre parti, magari non vincemmo la guerra, ma almeno una piccola botta di ironica presa per il culo, di sicuro gliela assestamento].

E BARTÀCA!…

di Angelo GIL Balocchi

Per me il 2 giugno, oltre a essere la festa della nostra beneamata Repubblica, rimarrà sempre un “inno all’Inconquistato”. Nella mia memoria di bimbo e ragazzino, questa data è infatti indelebilmente associata alla tradizionale gara di motoscafi sul Po, il raid Pavia-Venezia. I mitici “vapuréŋ” (vaporini)…che vigliacco se sono mai riuscito a vederne uno. Per poterli ammirare ci volevano pazienza, abnegazione, resistenza alla noia, senso della posizione, tempismo nell’appostamento. Tutte qualità che mi hanno sempre fatto gran difetto (e non solo il 2 giugno). Tato invece ce le aveva, ma questo ve lo spiego dopo… Non c’erano internet o altri mezzi a tenere informati in tempo reale sulla posizione dei piloti o di qualche piccola nuvoletta motonautica vagante. Lungo il loro strombettante flusso fluviale, la coincidenza del passaggio da Stagno dei “vapuréŋ”, capitava un po’ a casaccio, come una martellata sul ditone o una tempesta asciutta. Le strade allora erano due.

O ti rassegnavi allo stazionamento fisso sul posto, mettendo in conto però alcune grasse ore di tempi morti. Oppure tentavi l’azzardo supremo, rimanendo a casa a farti le blandizie tue e, al primo sentore di una “smotoràta” in risalita da dietro l’argine, inforcare alla “brùto boia” la bici, pedalare da forsennato fino alla nautica, confidando in tutta la “valentìa” di polpacci, polmoni e “galloni” (cosce). La fregatura però era quasi sempre più veloce, non solo di una bici, ma anche del più potente fra i motoscafi. Da casa alla riva del Po, pedalando a tutta birra, erano (e saranno tuttora) al massimo tre minuti. Ma bastavano a cucinare a puntino la perfetta delusione del mancato “rendez-vous sportivo”. All’altezza di Tolarolo, ancora ben lontano dalla meta, una sventagliata rombante di “vapuréŋ” in lontananza ti faceva “sgolośiare” ancor più l’agognato spettacolo. Imbroccata la salita dell’argine, quasi a mezzo dalla cancellazione della distanza, giù ancora, una nuova ondata furibonda di “smarmittamenti” selvatici. Ma ecco che, arrivato sul piazzale della nautica…puff! Più niente. Di “vapuréŋ” nemmeno l’onda. Anzi, quella sì: una scia beffarda di spuma sul pelo del Po, in coda a un’irridente eco di motori ormai lontani e svoltati appena oltre il “pennello”, dietro il primo macchione utile di “sàlas in mira a Culùrni” (salici in direzione Colorno). Il culmine della marinatura nel brodo della delusione, doveva però ancora venire. Regolarmente piazzato in postazione strategica per la visione ottimale del transito motorizzato, trovavo infatti ogni volta, puntuale come un orologio atomico, il mio grande amico Tato Quinzani. Tato è da sempre uno spettatore sportivo a livelli professionistici. La leggenda narra che sia riuscito a vedere persino la diretta tv notturna dell’incontro di boxe del millennio, “The Rumble in the Jungle” fra Alì e Foreman, disputato a Kinshasa, Zaire, il 30 ottobre 1974. Con un tale curriculum, non poteva allora che essere seduto su un “paracarro fluviale” fin dalle 8 di quella mattinata, per non perdersi nemmeno uno sbuffo d’acqua di ciascun “vapuréŋ” in gara. Tato non faceva a tempo a scorgermi giungere in lontananza, già pregno com’ero di irrimediabile ritardo, che con un sorrisetto sotto i baffi di malcelata soddisfazione, subito iniziava a srotolarmi il rosario doloroso di ogni meraviglia agonistica che mi ero perso. Tutto ciò che potevo fare io, con tanto di bava motoristica alla bocca, era ascoltare e incassare la litania: “…Sono passate le ‘piattelle’, gli entro-bordo, i fuoribordo, i porco-bordo, i vacca d’un bordo…e Bartàca!…”. Bartàca era un campione… Non meglio identificato, ma puntualmente dialettizzato, era la vetta dell’Olimpo “motoscafistico” locale: visto passare lui, avevi visto “La Motonautica”. L’identità del suo motoscafo rimaneva però velata nel mito, non si sapeva mai bene se era passato o no, e ciascuno sperava sempre che dovesse ancora passare. Finito di ascoltare l’elenco di Tato, a cui in qualche modo dovevo la soddisfazione di potersi far beffa di me, dall’alto delle sue tre ore abbondanti di attesa, rincasavo tra sensi di colpa motonautici e losche meditazioni di punirmi con terribili atti autolesionistici (tipo, mangiare due soli piatti anziché tre, dei lauti gnocchi il cui sugo avevo sentito ribollire appena alzato, in cucina). E mentre mi ripromettevo che quella sarebbe stata l’ultima volta che abboccavo al frustrante richiamo da sirene dei “vapuréŋ”, non avevo nemmeno varcato l’ideale confine della casa di “Marzillo” (“al Magistrāt pr’àl Pù”, lé a l’incrùś ca và ala FALED…), che subito, giù ancora, un rinnovato ronzare in lontananza mi blandiva subdolo: era una nuova raffica di motoscafi. Allora rieccomi, in un rinnovato dietro front a scapicollo per ritentare il colpaccio di cogliere al volo almeno una coda di “vapuréŋ”. Ma il copione si ripeteva inesorabile. Vedevo sempre e soltanto Tato, e sentivo sempre e soltanto un suo nuovo sfavillante elenco: “…sono passati i quattromila, gli ottomila, gli stra-bordo con motore Alfa Romeo, un olandese, che si è spiaggiato nei sabbioni col volante in mano, ma è ripartito guidando con la chiave inglese, poi un tedesco, un francese, un inglese…e Bartàca!!!…”. Non potevo nemmeno protestare che Bartàca me lo aveva già nominato prima, perché in virtù del suo essere campione immaginifico supremo, ciascuno aveva diritto di aver visto passare Bartàca tutte le volte che voleva. Viva il 2 giugno allora, viva la Repubblica, e viva anche tutti i “vapuréŋ”, il cui passaggio ogni volta mancai. Perché anche loro, come tutte le cose della vita mai ottenute, mai conquistate, o anche soltanto per un attimo sfiorate, restano e saranno sempre i migliori.

GRAN CAMPIONI DEL DIR SOTTILE

di Angelo GIL Balocchi

Se vuoi bene a nonna e zia, ami anche la filosofia. Però per stavolta lasciamo da parte i gran ragionamenti, per andare a razzolare, e ruzzolare, su terreni più ruspanti e popolani. Il confronto tra campagna e città ha formato nel tempo una storia antica come il cielo e vasta come il mare. Da che mondo è mondo, i villici hanno sempre fatto gran figure da paesani. Ma dall’altra parte, gli urbani raramente si sono resi conto di un fatto: fare ogni volta la figura dei cittadini, non è per forza, in tutto e per tutto, sempre quella gran cuccagna. A volte capitava fra i piedi un campagnolo arguto, che con una piccola stoccata surreale, riusciva a sparigliare le carte in tavola, tanto da non capirci più dentro tanto bene chi fosse davvero il beffardo, e chi il beffato. Possiamo ricordare al proposito, un gran personaggio di qualche anno fa. Credo che all’anagrafe facesse Tinelli, di cognome. Ma tutti capivano molto meglio di chi si stava parlando, quando veniva citato col suo leggendario soprannome: “al Bùba” (“il Bubba”). Sarebbe bello sapere il perché gli venisse affibbiato questo nomignolo, ma come quasi sempre accade, l’origine di certi “stranomi” è un mistero più insondabile del “punto G”. Sappiamo però che “Bubba” era una marca di leggendari macchinari agricoli, creati da una ditta piacentina, fra le prime a brevettare il famoso motore “a testa calda”. Se tanto mi dà tanto, conoscendo anche solo vagamente il carattere spiritoso e “movimentato” del nostro personaggio, possiamo ipotizzare un possibile collegamento fra la temperatura delle due teste, e darci in questo modo un’accettabile spiegazione.

Il “Bùba” faceva il muratore. Bisogna anche sapere che, nei tratti del viso, era “dotato” di una tale “energia inestetica” da sembrare una forza sgangherata della natura (in poche parole: “L’éra bröt asè!!!”). Un giorno, stava lavorando in un cantiere, in città o lì vicino. Era con un collega, sempre nostrano. Arriva lì un tizio, probabilmente del posto, e che in ogni caso voleva mettere un po’ in difficoltà i “nostri”, facendoli passare per dei gran “paesanotti”. “…D’śì ragàss, cò a ghé ad bél a Ròcabianca?…” (dite un po’, ragazzi, cosa c’è di bello a Roccabianca?) se ne esce fuori “sbruffoneggiando” l’altero “cittadinozzo”, quasi sicuro di spiazzare gli interpellati, originari di un paese con così scarse attrattive. Il “Bùba” però, che era scarso d’aspetto fisico, ma incantevole per ingegno nei “calci di rinvio” in campo ironico, non si fa cogliere impreparato, stoppa saldamente la palla fra petto e fantasia, e da gran portiere fra i pali dell’umorismo, indicando col pollice indolente il collega di muratura, rilancia: “…Mah…a Ròcabianca, ad bèl, agh siòm mé, e’n pù ché lö!!!…” (Mah, a Roccabianca, di bello, ci siamo io, e un po’ questo qua). Non è dato sapere se il provocatore riuscisse fino in fondo a soppesare la caratura effettiva della sottigliezza rimessa in campo dal “Bùba”. Ma il bello forse stava proprio in questo: nell’essere riuscito a beffare di rimando, a parole, un pretendente sfottitore, e per di più facendo sì che nemmeno se ne rendesse conto. E se non è genio questo, ditemi voi cos’è…

MILIU E LO STRANO RIFLESSO BUONO DI ROCCABIANCA

di Angelo GIL Balocchi

Tutti gli anni, qualche giorno prima della ricorrenza dei morti, una piccola incombenza cimiteriale mi rispolvera il caro ricordo di una figura del passato di Roccabianca. Devo ogni volta ripulire l’avello di una lontanissima bis-bis-zia (morta nel 1917!). È molto in alto, sotto l’arcata centrale in cui si congiungono i due bracci porticati. Serve la scala, e mentre salgo i traballanti gradini, inevitabilmente, appena sotto, mi si presenta davanti la foto di un personaggio del paese, che per me rimane sempre ammantato di una sfumata aura di leggenda, avendolo conosciuto più che altro nel periodo in cui ero bambino e poi ragazzo. Il suo svagato sorriso dolceamaro, lo ritrovo uguale a come lo ricordo dai tempi, con l’espressione trasognata, da quel “Gandhi del disimpegno” che è stato, e in tanti hanno conosciuto, sotto il “mitologico” nome di “Miliu Béstia” (Emilio Mingardi – 1918/1988). Ripensare a Miliu, fa sempre uno strano effetto nostalgia. Non era un mio parente, ma non so come mai, in qualche modo mi coglie il pensiero che sia stato un po’ parente di tutti. Il suo “stile di vita”, così estremo da poterlo definire “scelta di non-vita”, ci poneva di fronte non poche occasioni di riflessione. Era bizzarro, eccentrico, selvatico, talvolta invadente o imbarazzante, fastidioso o a tratti divertente e pittoresco, ma dava in ogni modo a ciascuno l’occasione di confrontarsi con un esercizio di tolleranza del diverso. Volergli bene era faticoso, ma in fondo ciascuno gliene voleva, perché ne riceveva in cambio un importante insegnamento, ossia proprio la consapevolezza che accogliere gli altri nelle più impegnative difficoltà, richiede uno sforzo non da poco. Miliu è stato uno spericolato cavaliere errante della libertà assoluta. Il suo vivere al limite, molto più subito che voluto, con un piede ormai ben calcato nel degrado umano (e l’altro tenuto fisso nella dimensione di una sconfinata fantasia), ci faceva interrogare fortemente circa il significato della libertà stessa. Aveva a suo modo una personalità complessa, Miliu, e questo fatto contribuiva ad accrescerne il fascino di essere umano ricco di innumerevoli fonti di significazione. Poteva sorprenderti con enigmatiche massime, degne del rovello interiore da filosofo combattuto nelle proprie esplorazioni concettuali: “…Il sapere non è granché, però bisogna sapere…” capitava di sentirlo declamare al bancone del bar di Galli. “…La ricchezza è lo scandalo della propria virtù…”: ed era sempre lui, stavolta seduto davanti le vetrine “da Verdi”, “sóta ai pùrtagh”, contemplando la sua magica sfera di cristallo rigorosamente ricolma di malvasia. E non riuscivi mai a essere certo che nel frattempo non ti stesse prendendo anche un po’ per il culo, votandosi ad altrettanto fidati spiriti guida più vicini stavolta alla corrente di pensiero di Totò o Macario. Amava la bellezza, Miliu, e ne dava dimostrazione con la familiarità continuamente coltivata verso il mondo dell’opera lirica. Cantava le romanze in faccia al barista divorato dal dubbio di continuare, o no, a versargli da bere. Partiva intonando sfrenato, quando gli girava, lui stesso personaggio da melodramma: Rigoletto bevitore, dalla tragicità mescolata al comico di un Falstaff con indosso l’eterna canottiera bisunta, “uniforme ufficiale” da cicala in barba al formicaio del mondo. Era di Roccabianca, Miliu, nel miglior modo di esserlo, ossia quello legato alla sagacia del dire, alla prontezza della battuta, alla crudele stoccata di genio dialettale. Tanto che, anche se non fosse stato tutto il groviglio di significati umani che pure fu, sarebbe bastata una sua potente battuta pronunciata in una memorabile occasione, a farne l’eroe più genuino della nostra gloriosa tradizione antieroica di paese. Un tipo che aveva vissuto anni nel capoluogo lombardo, e intendeva magnificare del tutto candidamente la variegata realtà metropolitana, si era affidato con leggerezza al più classico degli adagi meneghini, dichiarando in mezzo a un crocchio riunito in chiacchiere da osteria: “…Milàn l’é un gran Milàn…”. Si era però scordato di fare i conti con la rapidità di esecuzione di Miliu, che aveva rilanciato con un micidiale: “…E te at sì un gran spurcacióŋ!…”. Nient’altro da aggiungere. Quando la grandezza sale sulla scena, rimane soltanto una cosa da fare: applausi, sipario.

QUANDO IL BUON NATALE, TE LO DAVA PIPÓŊ

di Angelo GIL Balocchi

Fra i più “colorati” e coloriti personaggi popolari di Roccabianca, Pipóŋ (Giuseppe Mori) occupa senz’altro un posto spettacolare nella memoria del paese. Quasi tutti lo ricorderanno per le sue sfuriate sbalorditive durante le partite del Roccabianca al campo sportivo, dove per lui, il solo fatto di venire da appena fuori i confini della “Mano”, poteva essere paragonato a uno dei più nefandi crimini contro l’umanità (non fosse stato che pure i nove decimi dell’umanità, gli stavano già di per loro sulle scatole). Le cose che non ti diceva…se per caso ti portavi appresso l’onta di essere di Sissa o di San Secondo! Gli improperi che non tirava dietro a ogni squadra avversaria al completo, dal portiere fino al massaggiatore! Si potrebbero tutti annoverare in una aggiornatissima ed esaustiva “Enciclopedia dell’Insulto”. Ma al di là delle sue caratteristiche meglio riconoscibili, Pipóŋ ha rappresentato la genuinità di un certo modo di essere “di Roccabianca”, grazie a una particolarità più sottile, per così dire. I suoi modi ruvidi e ultra-polemici di burbero sostanzialmente buono nell’animo, davano piena espressione a un tratto caratteriale tipico della nostra identità “roccabianchina”. Forse solo chi vive o ha vissuto a Roccabianca può capire la questione nei suoi termini definiti. Da primavera a inverno, il clima è “abbastanza” da schifo. Le soddisfazioni meteorologiche durante le quattro stagioni si contano sulle dita della mani, con l’aggiunta dei piedi nelle annate felici. La posizione geografica è altrettanto esasperante: “ingrugnati” (incastrati) come siamo contro una gran virgola del Po (che tra l’altro ci minaccia ogni tre per due con le sue piene), vediamo la nostra esistenza di “aggregato abitativo” continuamente misconosciuta da mezza provincia di Parma (da Viarolo in avanti, la parola “Roccabianca” suona forse più come errore grammaticale, che non come possibile nome di un paese davvero esistente). In questo contesto “non molto esaltante”, ti scattano dentro certi meccanismi naturali di autodifesa morale, concretizzati in una forma di disillusione sarcastica, in grado di sfociare persino in punte di cinismo disincantato di fronte al resto dell’umanità, che se proprio non la odi, perlomeno la osservi sempre con estremo sospetto. Questa è l’essenza caratteriale di Roccabianca che meglio si concentrava nella caustica personalità di Pipóŋ. E una delle frasi più luminose con cui dava spettacolare espressione massima alla sua indole di “brangognatore” (brontolone) instancabile, Pipóŋ era solito sfoderarla giusto nei paraggi delle festività natalizie. È una dichiarazione che per “genialità cinica” non ha forse eguali in tutta la storia della letteratura mondiale, il che ci rende tutti fieri, come “roccabianchini”, della profondità nobile delle nostre origini esistenziali, radicate in un retroterra così fertile di eccentricità del vivere. È al tempo stesso il più potente antidoto contro ogni melensaggine natalizia o di altra natura più generale. Per farla breve, poteva capitarti di incontrare Pipóŋ, magari nella barberia di Pino “ad Cìciaréla”, dove gli piaceva fare un salto a tenere banco un po’, in uno di quei giorni semi-fiacchi a ridosso del Natale (forse non proprio la vigilia, ma il 21 o il 22, sì), e lo sentivi a un certo punto sbottare con questa meravigliosa perla: “…At vè in gir, it fàŋ an möc d’auguri d’ad ché, e auguri d’ad là, e pú dòpa i’n vádan l’ùra ch’at mör…” (vai in giro, ti fanno un sacco di auguri di qua, e auguri di là, e poi dopo non vendono l’ora che muori). Contro il logorio del Natale moderno, dunque. Abbiamo in serbo un bellissimo ricordo. Quello del più simpatico, mai conosciuto, fra gli scorbutici: Pipóŋ.

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